L’uso del patronimico come marchio

Al mercato odierno, fortemente globalizzato ed ipertrofico, deve essere attribuito il merito di aver incentivato le imprese a focalizzare la loro attenzione anche sulla tutela del proprio marchio. Nel consueto linguaggio corrente, infatti, grande risonanza è stata acquisita dalle espressioni quali “fashion law”, “luxury goods” e “brand protection” proprio a dimostrazione della crescente tutela e protezione dei segni distintivi presenti sul mercato i quali presuppongono un denominatore comune costituito dal marchio. Per tale ragione, prima di addentrarci nel vivo dell’argomentazione del presente articolo, avente ad oggetto l’uso del patronimico come marchio, utilizzato frequentemente nel settore della moda, è necessario operare una breve disamina sull’utilizzo del marchio, quale segno distintivo impiegato per distinguere i beni e i servizi prodotti da un imprenditore e immessi nel mercato. A tal proposito un’autorevole parte della dottrina ha chiarito che il segno è distintivo se è idoneo a selezionare all’interno di una classe di beni una sottoclasse individuata in funzione della sua provenienza da una certa impresa anziché da altre. Infatti il marchio è considerato uno dei principali elementi di immagine dell’azienda e gli è attribuita una notevole rilevanza poiché è ritenuto un collettore di clientela in quanto favorisce la formazione e il mantenimento della clientela stessa la quale, potendo distinguere tra i vari operatori economici presenti sul mercato, opera delle scelte consapevoli. A riguardo, la tutela che il legislatore ha inteso riconoscere ai segni distintivi è volta a consentire una “politica commerciale felice” destinata a garantire ai suoi titolari la possibilità di distinguere i propri prodotti da quelli dei concorrenti. Dunque, nell’ambito dei segni distintivi, e del gioco della concorrenza, il messaggio che viene comunicato dal marchio è quello dell’esistenza di un’esclusiva, riassunta nel brocardo latino dello “ius utendi ac excludendi alios”: ovvero un messaggio che informa il pubblico dell’esistenza di un soggetto in un determinato ambito che può vietare ad altri di usare quel determinato segno.

Da quanto appena accennato emerge chiaramente che attorno ai segni distintivi dell’impresa ruotano una pluralità di interessi, identificabili non solo in quello dei consumatori a non essere tratti in inganno sulla provenienza dei beni o dei servizi ai quali accedono, ma anche in quello degli imprenditori di distinguersi dai concorrenti al fine di attrarre clientela e aumentare i profitti grazie al valore economico assunto dai segni distintivi. Orbene, in considerazione della circostanza di fatto per cui gli interessi in gioco sono molteplici è necessario eseguire un’azione di bilanciamento tra essi al fine di ottenere un marchio di successo, idoneo a realizzare una concorrenza di mercato ordinata e leale, attraverso la regolamentazione dei segni distintivi dell’impresa, contenuta sia nel codice civile dagli artt. 2569-2574, che nel Codice Della Proprietà Industriale (c.p.i.) entrato in vigore il 19 marzo 2005.

Per comprendere la portata del marchio, e più nello specifico del patronimico, è doveroso rifarsi a ciò che l’ordinamento intende per bene giuridico. Ebbene esso è ritenuto come quell’entità rilevante che possa formare oggetto di diritti, nel cui concetto sono ricompresi sia i beni materiali che quelli immateriali. Mentre i primi sono tradizionalmente oggetto del diritto di proprietà, per i secondi ci si avvale di un più generico diritto di “appartenenza” in cui il riferimento terminologico alla “proprietà” ha il solo scopo di evocare l’idea di esclusività, quale possibilità riconosciuta al titolare di escludere chiunque dallo sfruttamento del bene. L’espressione comunemente utilizzata “proprietà intellettuale” vale dunque, solo ad indicare genericamente le situazioni giuridiche soggettive riconosciute in ordine allo sfruttamento di una data creazione intellettuale. Il legislatore del 1942, non a caso, ha disciplinato le creazioni dell’ingegno nel libro V del codice civile quasi a voler chiarire la lontananza dei diritti riconosciuti in materia dal modello proprietario e a considerare tali creazioni quali suprema espressione del lavoro. Prassi vuole che chiunque inizi un’attività di impresa può utilizzare marchi di vario genere ma in questa sede l’attenzione è posta principalmente sul patronimico, ossia l’uso del proprio nome e cognome come brand, il quale è molto efficace nella comunicazione della propria immagine professionale ed è dotato di una grande forza distintiva in quanto esso viene memorizzato e ricordato con grande facilità. Basti pensare che tra i marchi patronimici, i più impiegati li ritroviamo nel settore della moda poiché consentono allo stilista di firmare le proprie realizzazioni direttamente con il proprio nome ma questi segni sono naturalmente il bersaglio privilegiato per «operazioni parassitarie» volte a trarre indebito vantaggio dallo sfruttamento della notorietà acquisita dal nome dello stilista, o dal suo soprannome, o, in ogni caso, dall’appellativo con cui lo stesso è conosciuto nel settore, e anche fuori da esso. Si pone quindi il problema di come tutelare il «nome» degli stilisti contro tali condotte le quali si verificano perché spesso, intorno al nome si nasconde un potenziale commerciale di notevole rilievo e investire su di esso, registrandolo come marchio, potrebbe rivelarsi una scelta strategica di impatto sulle possibilità di successo dei propri prodotti o servizi sul mercato poiché il primo vantaggio da prendere in considerazione consiste nella totale assenza di aderenza concettuale tra il patronimico e il prodotto o servizio che si vuole contraddistinguere.

Il marchio patronimico è dotato, infatti, di una capacità distintiva ab origine che consente di risparmiare sugli investimenti che sarebbero invece richiesti per assicurare una capacità distintiva ad un marchio nato descrittivo. Pertanto il titolare di un marchio patronimico si troverà in possesso non solo di un marchio valido, ma anche e soprattutto di un marchio forte che sarà tutelato contro somiglianze, anche minime, idonee a ingenerare confusione. È necessario, a tal punto, evidenziare anche i vizi ostativi all’uso del patronimico in quanto nel contesto normativo generale, al tema del «nome», si riferisce anzitutto l’art. 8 c.p.i.. , 2° co. il quale mette in risalto un concetto molto importante che sfugge ai più, ossia che poter usare come marchio il proprio nome e cognome non è così scontato come sembra poiché è indispensabile anzitutto premettere che il nome è un mezzo di identificazione dell’individuo, espressione dello “stato” della persona, cioè del «diritto di essere sé stessi e niente altro che sé stessi», che costituisce il presupposto e quasi il tessuto connettivo di ogni altra espressione della personalità. Oltretutto, concetto di fondamentale importanza è rappresentato dal fatto che salvo casi eccezionali, la legge non richiede che i marchi patronimici siano registrati solo ed esclusivamente dal titolare del nome. Infatti la normativa nazionale e quella comunitaria consentono di registrare come marchio non solo il proprio nome, ma anche il nome appartenente a terzi, introducendo il principio della libera appropriabilità. In questa circostanza, il diritto al nome, subisce una limitazione nell’ambito dell’attività economica e commerciale quando il nome stesso sia già stato registrato come marchio altrui. Per tale ragione, il legittimo titolare non potrà utilizzare il proprio nome nella propria attività economica o registrarlo come marchio per prodotti o servizi identici o affini a quelli già inclusi in un marchio anteriore che contenga lo stesso nome. Ciò significa che chiunque può registrare come marchio il nome che preferisce, anche se non è il proprio, purché l’uso del marchio non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tale nome. Quando la norma definisce l’oggetto della protezione con i termini fama, credito e decoro sembra richiamarsi evidentemente all’art. 97 della Legge sul diritto d’Autore del 22 aprile 1941, n.633 (l.d.a.) che, nel porre un limite allo sfruttamento dell’immagine altrui, testualmente si riferisce al pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona. Anche se sono diversi, entrambi gli articoli summenzionati (art 8 c.p.i. e 97 l.d.a.) corrispondono nella sostanza all’art. 7 c.c. nel momento in cui esso statuisce che il titolare del nome può «risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia». Tali disposizioni del Codice Civile si identificano come norme di carattere sostanziale e anzitutto individuano dei diritti esclusivi, come quello al nome, che possono essere opposti anche all’uso del medesimo segno come marchio e stabiliscono inoltre i limiti di tali diritti. Viceversa, le norme speciali contenute nell’art. 8, I e II comma sono invece norme che si riferiscono al procedimento amministrativo davanti all’Ufficio Marchi e Brevetti per la registrazione del nome di una persona come marchio, e alla verifica che l’Ufficio compie circa la sussistenza dei presupposti per la richiesta dell’eventuale consenso dell’avente diritto. C’è da specificare che, nonostante quanto appena esposto, in ogni caso, la registrazione non impedirà a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta, sussistendone i presupposti di cui all’art 21, comma 1 c.p.i. il quale statuisce che “ i diritti di marchio di impresa registrato non permettono al titolare di vietarne ai terzi l’uso nell’attività economica, purché l’uso sia conforme ai principi di correttezza professionale”.In tal modo, proprio quel diritto al nome inizialmente limitato dalla registrazione anteriore, può godere di una leggera apertura qualora sia utilizzato dal legittimo titolare nella propria attività economica in modo conforme ai principi della correttezza professionale e cioè in modo da evitare qualsiasi rischio di confusione o forma di agganciamento parassitario al marchio anteriore. Tale conformità sussiste qualora il proprio nome venga utilizzato in funzione meramente descrittiva e non distintiva. Il temperamento introdotto con il varo del Codice, secondo cui la registrazione come ditta del nome medesimo può ritenersi lecita solo ove ciò non sia contrario ai presupposti di cui all’art. 21, co. I c.p.i. ossia alla correttezza professionale, è volta a vietare ogni forma di parassitismo, in tutti quei casi in cui tale uso nell’attività economica possa determinare non solo un pericolo di confusione (o associazione) ma anche un agganciamento o un pregiudizio alla distintività o alla rinomanza del marchio medesimo. Da una prima lettura della norma sembrerebbe che il titolare del patronimico possa utilizzare il proprio nome nell’ambito dell’attività economica a condizione che esso sia conforme ai princìpi della correttezza professionale. Occorre, però, accennare che la giurisprudenza di merito ha chiarito la portata dell’art. 21 c.p.i, ristringendone il proprio perimetro. In particolare, in più occasioni, la Cassazione ha stabilito che “Un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio, non può essere di regola adottato, in settori merceologici identici o affini, né come marchio né come denominazione sociale, salvo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione da parte di altri” (Cass. Civ., Sez I, del 25 febbraio 2015, n. 3806).

La legge, quindi, stabilisce una forma di prevalenza del titolare del marchio registrato sul titolare del nome e cognome ponendo in capo a quest’ultimo delle pesanti limitazioni all’uso del proprio nome e cognome nell’attività professionale. Infatti, l’utilizzazione commerciale del nome patronimico corrispondente al marchio già registrato da altri non può avvenire in funzione distintiva ma solo descrittiva in corrispondenza alla necessita che l’uso del marchio sia conforme ai principi della correttezza professionale. In giurisprudenza, basti ricordare la sentenza della Suprema Corte del 6 novembre 2014 n. 23648, nella causa Ciresa/Ciresa, secondo cui “la funzione (del marchio) quale segno distintivo della provenienza del prodotto è quella di indicare l’imprenditore che ha prodotto le merci od i servizi e per il quale vale il (diverso) principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui, ai sensi dell’art. 1 bis del r.d. 21 giugno 1942 n. 929, in materia di marchi registrati (nel testo aggiunto dall’art. 2 del d.lgs 4 dicembre 1992, n. 480), l’utilizzazione commerciale del nome patronimico deve essere conforme ai principi della correttezza professionale e, quindi, non può avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva, in ciò risolvendosi la preclusione normativa per il titolare del marchio di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome; ne consegue che sussiste la contraffazione quando il marchio accusato contenga il patronimico protetto, pur se accompagnato da altri elementi(Cass n. 29879/11: Cass. n. 16283/09: Cass. n. 6024/03 9154/97; Cass n. 8157/92).

 Del resto, tale principio è stato espresso in una “storica”, ed ancora attuale, sentenza della Corte di Cassazione, 18 giugno 1955 n. 1903, secondo cui “il nome patronimico, in quanto venga usato in funzione di marchio per contraddistinguere i prodotti di una determinata azienda, acquista una propria entità del tutto indipendente dalla persona fisica cui il nome appartiene. Pertanto è possibile la formazione, sul nome di cui sopra, di diritti di altra natura collegati unicamente all’azienda, senza che con questo resti menomata la funzione del nome civile, con i diritti imprescrittibili ed inalienabili che a tale funzione e alla natura del nome civile stesso esclusivamente si riconnettono” (Cass, n. 1903/55). Tale impostazione è conforme alla migliore dottrina formatasi sotto il vigore del noto iter legislativo relativo ai marchi c.d. patronimici. Vi è infatti l’esigenza di mantenere, entro due aree tra di loro indipendenti, da un lato i segni distintivi e dall’altro i diritti della personalità. La disciplina codicistica in tema di nome civile non “può non ritenersi derogata in campo economico, dove specifiche norme regolano i confini tra le due diverse tutele, stabilendo comunque la prevalenza della tutela del nome-marchio su quella del nome civile”. E proprio perché le finalità di tutela sono eterogenee, assume particolare rilievo nel campo commerciale la funzione distintiva. Si giunge così ad una rigida distinzione tra ruolo “identificativo” del nome civile e ruolo “distintivo” dello stesso, quando questo venga utilizzato in un contesto imprenditoriale. Proprio per risolvere i contrasti in campo imprenditoriale è intervenuta sul punto una recentissima sentenza della Cassazione n. 13921/2020 la quale a tal proposito ha affermato che: “Ove due società di capitali abbiano la medesima denominazione, il conflitto tra i segni va risolto attribuendo prevalenza all’iscrizione nel Registro delle Imprese, o nel Registro delle Società per il periodo che precede l’entrata in vigore della Legge n. 580 del 1993, che è intervenuta per prima, senza che assuma rilievo né il mero pregresso utilizzo della stessa denominazione da parte di altra società, che ha cessato da tempo di operare e che faceva capo a familiari del socio di una delle società registrata per seconda, né il fatto che la denominazione di quest’ultima coincida col cognome di uno di tali soci” ed inoltre “Qualora due società di capitali inseriscano, nella propria denominazione, lo stesso cognome, il quale assuma per entrambe efficacia identificante, e si verifichi possibilità di confusione, in relazione all’oggetto ed al luogo delle rispettive attività, l’obbligo di apportare integrazioni o modificazioni idonee a differenziare detta denominazione, posto dall’art. 2564 c.c. a carico della società che per seconda abbia usato quella uguale o simile, non trova deroga nemmeno nella circostanza che detto inserimento sia legittimo e riguardi il cognome di imprenditore individuale la cui impresa sia stata conferita nella società, poiché anche in tale ipotesi la denominazione della società può essere liberamente formata” (Cass. n. 13921/20). Del resto, come sopra affermato, si è consolidato il principio secondo cui l’utilizzazione commerciale del nome patronimico deve essere conforme ai principi della correttezza professionale, in ciò risolvendosi la preclusione normativa per il titolare del marchio di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome. Tanti sono gli esempi concreti di contrasti relativi alla tutela del patronimico ma, in questa sede, si è preferito analizzare due dei più importanti casi di rinomanza mediatica degli ultimi anni al fine di evidenziare come le problematiche che ruotano attorno al patronimico siano ancora attuali.

Il caso Elio Fiorucci

Una volta compresa la ratio dell’art. 21, comma I, si pone il particolare problema dell’uso che lo stilista possa fare del proprio nome, specie a seguito della cessione o della perdita dei suoi marchi patronimici, o della separazione dalla compagine societaria cui tali marchi sono rimasti, e della possibilità di poter utilizzare il proprio nome sia come indicazione della sua paternità artistica sia

come indicazione della provenienza imprenditoriale dei prodotti. A tal proposito prendiamo le mosse proprio dall’ esame del caso dello stilista Elio Fiorucci, il quale aveva acquisito talmente tanta notorietà in Italia negli anni ’70 che il suo nome si elevò a patronimico e marchio notorio. A questo punto, sulla scorta della regolamentazione del marchio esplicata nelle pagine precedenti, ci si chiede se uno stilista famoso, dopo aver ceduto il marchio costituito dal suo nome possa utilizzare il nome stesso in nuovi marchi. Si rammenta che non è da escludersi la registrazione e l’uso del segno contenente il patronimico già inserito in altro marchio registrato, ma è necessario verificare se lo sfruttamento del segno possa considerarsi contrario agli usi consueti di lealtà, accertando se il segno pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà.  Passando ad analizzare l’accaduto nello specifico, si illustra che il fatto traeva origine a causa di alcune difficoltà economiche che avevano portato la società dello stilista, la Fiorucci S.p.A., ad affrontare la liquidazione e una procedura di concordato preventivo a seguito della quale veniva ceduto ad una interveniente della procedura, la Edwin Co. Ltd, una multinazionale giapponese, l’intero «patrimonio creativo» della Fiorucci, ivi compresi tutti i marchi di cui era titolare contenente l’elemento “Fiorucci” . Lo stilista era accusato di contraffazione, violazione e di concorrenza sleale in quanto, dopo aver interrotto i rapporti di collaborazione con le cessionarie, aveva iniziato ad utilizzare e a presentare domanda di registrazione del marchio “Love Therapy by Elio Fiorucci” per prodotti di abbigliamento, accessori e gadget.  Si poneva, pertanto, la questione relative alla possibilità dello stilista di utilizzare, dopo la cessione, nuovi marchi che, pur composti anche da altre parole, erano costituiti anche dal suo nome.

A parere della società giapponese l’uso del marchio “Love Therapy by Elio Fiorucci” generava un pericolo di confusione o di agganciamento alla rinomanza al marchio patronimico “Elio Fiorucci” di cui era la titolare.  Inizialmente sia il Tribunale che la Corte di Appello di Milano avevano respinto il ricorso della Edwin sulla base dell’art. 21 c.p.i. secondo cui i diritti di marchio d’impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l’uso del loro nome nell’attività economica, se l’uso è conforme ai principi della correttezza professionale. Dunque, la sentenza della Corte di Appello di Milano statuì che la presenza dell’elemento “by Elio Fiorucci” nei marchi registrati e utilizzati dallo stilista non era contraria alla norma in questione in quanto il patronimico era utilizzato in funzione non distintiva ma descrittiva, ovvero per indicare il contributo creativo dello stilista.

Avverso questa sentenza, la Edwin aveva presentato ricorso presso la Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 12995/2017, nel cassare la precedente sentenza della Corte di Appello di Milano e nell’ esprimersi nel merito, stabilì che poiché l’azione legale era iniziata il 27 gennaio 2005, la vicenda non era regolamentata dal Codice della Proprietà Industriale (entrato in vigore il 19 marzo 2005) ma bensì dalla Legge marchi ancora vigente all’epoca dei fatti (Cass. Sez. Civ., n. 12995 del 2017).

L’articolo 1 bis della Legge marchi disponeva che i diritti sul marchio d’impresa registrato non permettevano al titolare di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome purché l’uso fosse “conforme ai principi della correttezza professionale, e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva”. La norma della Legge marchi derivava dall’art. 6.1 della Direttiva 89/104/UE, secondo il quale il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio del patronimico se l’uso è conforme agli “usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale”. Secondo la giurisprudenza comunitaria, l’uso del patronimico coincidente con un marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale nei seguenti casi:

  • se avviene in modo tale da far pensare che esista un legame commerciale fra i terzi e il titolare del marchio;
  • se pregiudica il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà;
  • se arreca discredito o denigrazione a tale marchio;
  • se il terzo presenta il suo prodotto come un’imitazione o una contraffazione del prodotto recante il marchio di cui non è titolare.

Dunque, i giudici della Corte di Cassazione ritennero che la sentenza della Corte di Appello di Milano fosse errata non solo perché applicava l’articolo 21 c.p.i. a fatti antecedenti all’entrata in vigore del codice della proprietà industriale, ma soprattutto perché il giudice del merito era tenuto, nel caso di un marchio molto noto quale era il marchio Fiorucci, a verificare se l’uso del patronimico pregiudicasse il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà. La sentenza della Suprema Corte di Cassazione sottolinea che l’indebito vantaggio può sussistere anche in assenza di un rischio di confusione, a causa del semplice agganciamento fra i segni. Assodato che non è da escludere in termini assoluti la registrazione e l’uso del marchio contenente il patronimico che sia già inserito in altro marchio registrato, era necessario comunque verificare se lo sfruttamento del segno potesse considerarsi contrario agli “usi consueti di lealtà”. Per esigenza di completezza si ricorda che sempre nell’affaire «Fiorucci» si annoverano anche altri procedimenti e in particolare l’autorità giudiziaria intervenuta su una stessa questione che aveva investito la Love Therapy s.r.l. si è altresì espressa in ordine ai seguenti ulteriori chiarimenti nella recentissima sentenza n. 10298/2020, ribadendo che l’uso in funzione di marchio del patronimico “Fiorucci” da parte del sig. Elio Fiorucci è illegittimo, ripetendo quanto già espresso nella sentenza n. 10826/2016 pronunciata nei confronti dello stesso Fiorucci e di Edwin Company Ltd su questione sostanzialmente identica in fatto e in diritto. La pronuncia si inserisce nel contesto della nota vicenda giudiziaria che in passato ha visto più volte contrapporsi, da un lato, la società Love Therapy S.r.l. e lo stilista Elio Fiorucci, creatore dell’omonimo marchio, e dall’altro lato, la società Fiorucci Design Office S.r.l. (“FDO”), licenziataria esclusiva del marchio “Fiorucci” su licenza della Edwin Company Ltd, a cui il marchio Fiorucci era stato ceduto negli anni ’90, precisando che:

  1. L’inserimento del medesimo patronimico in altro marchio o in altra ragione sociale non può considerarsi né legittimo né lecito neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione, prima, e di notorietà, poi, ad opera dello stesso titolare che l’abbia poi ceduto ad altri”
  2. “Il rigore del principio, che riserva al titolare del marchio registrato inglobante il patronimico di ritrarre da esso i vantaggi patrimoniali connessi alla sua rinomanza e all’agganciamento ad una filiera produttiva che il marchio contribuisce ad individuare, è stemperato dall’art. 21 c.p.i. secondo cui il diritto di privativa non si estende sino al punto di vietare che altri faccia uso del patronimico nella propria attività economica. In tal caso, tuttavia, l’utilizzazione commerciale del nome patronimico, deve essere conforme ai principi della correttezza professionale e, quindi, non può avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva, in ciò risolvendosi la preclusione normativa per il titolare del marchio di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome.
  • “La persistente necessità che l’utilizzazione commerciale del nome patronimico, corrispondente al marchio già registrato da altri, debba avvenire solo in funzione descrittiva e non distintiva, è spiegata con la considerazione che l’avvenuta modifica normativa ad opera dell’art. 21 c.p.i., rispetto alla previsione dell’art. 1-bis R.D. 929/1942, ha lasciato comunque in vita la condizione che l’uso del marchio debba essere conforme ai principi della correttezza professionale. Con questa locuzione è stata trasfusa nell’ordinamento nazionale quella utilizzata dalla norma unionale e ciò per l’intuitiva ragione che consentire anche un’utilizzazione in funzione distintiva del patronimico registrato a nome altrui ben potrebbe costituire violazione dei “principi di correttezza professionale” o risultare contrario “agli usi consueti di lealtà”
  1. “ L’inserimento, nel marchio, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in un ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva”
  2. “L’uso del marchio non è conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale, in particolare quando: – avvenga in modo tale da far pensare che esiste un legame commerciale tra i terzi e il titolare del marchio; – pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà; – causi discredito o denigrazione di tale marchio; – o il terzo presenti il suo prodotto come un’imitazione o una contraffazione del prodotto recante il marchio di cui egli non è il titolare.
  3. “Anche facendo leva sul fatto che l’uso del patronimico, già inserito in un marchio altrui, non deve pregiudicare il valore di quest’ultimo traendo un indebito vantaggio dal suo carattere distintivo e dalla sua notorietà, l’uso descrittivo del marchio altrui consentito dal patronimico non cessa comunque di essere rilevante. E’ proprio l’insussistenza, in concreto, di un uso descrittivo del patronimico a determinare, almeno nella normalità dei casi, l’agganciamento dei segni, con il duplice effetto di consentire, da un lato, al titolare del marchio posteriore di ritrarre un’utilità dalla posizione acquisita sul mercato dal marchio anteriore e di attenuare, dall’altro, l’idoneità distintiva di quest’ultimo”
  • “Il giudice di merito, pur mantenendo ferma la funzione descrittiva del patronimico, deve attualizzare il criterio della “correttezza professionale” o, se si vuole, quello delle “consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale” in funzione della considerazione di un più ampio arco di fattori valutativi intesi, tra l’altro, a commisurare, insieme all’indebito beneficio che il terzo abbia tratto dallo sfruttamento dal patronimico figurante nel marchio altrui e dal conseguente effetto di agganciamento, il pregiudizio che in tal modo si arreca al titolare dei diritti di privativa” (Cass. n. 10298/2020).

In definitiva, un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio denominativo, non puo’ essere di regola adottato, in settori merceologici identici o affini, come marchio (oltre che come denominazione sociale), salvo il suo impiego limitato secondo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attivita’ economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione prima, e di notorieta’, poi, ad opera dello stesso creativo che poi l’abbia ceduto ad altri.

Il caso Morellato

Un altro caso di grande risonanza in tema di patronimico è quello riguardante il caso Morellato. La questione era di competenza del Tribunale di Venezia il quale con ordinanza del 10 maggio 2016, si era pronunciato in un procedimento cautelare che vedeva come parte ricorrente la società Morellato spa .  L’ azienda ricorrente aveva agito nei confronti di una società con denominazione omonima, Morellato spa, verso la quale chiedeva fosse inibito l’utilizzo in qualsiasi forma e modalità del marchio Morellato. La resistente aveva adottato la denominazione sociale “Morellato” nel 2013, ed era titolare di due marchi denominativi “Morellato”, l’uno italiano, l’altro europeo, depositati rispettivamente nel 2004 e nel 2005, a fronte di quello della ricorrente oggetto di numerose registrazioni sia nazionali che comunitarie a far tempo dal 1989. La società resistente, inoltre, aveva registrato nel 2014 il nome a dominio “www.morellatobeauty.it”, a fronte del domain name “www.morellato.it” registrato dalla ricorrente nel 1996. La ricorrente quindi aveva proposto ricorso per inibitoria cautelare lamentando, inter alia, la registrazione in mala fede da parte della resistente dei marchi denominativi, del domain name e della denominazione sociale in questione, oltre che la contraffazione del proprio marchio denominativo celebre ad opera dei segni distintivi della resistente. La resistente si era difesa sostenendo, in primo luogo, che i propri marchi sarebbero stati oggetto di convalidazione ex art. 28 CPI, avendone la ricorrente tollerato l’uso per oltre cinque anni consecutivi. Inoltre, secondo la resistente il marchio azionato dalla ricorrente non era dotato di rinomanza, per cui non godeva della tutela extramerceologica concessa ai marchi celebri, e la totale diversità tra i prodotti per cui i marchi erano stati registrati avrebbe di per sé escluso ogni ipotesi di contraffazione. I marchi della resistente erano infatti registrati per prodotti (tra cui profumi, cosmetici e articoli di abbigliamento) completamente diversi da quelli del marchio della ricorrente (tra cui metalli preziosi, gioielleria ed articoli in pelle). Infine, la resistente affermava la legittimità, da un lato, dell’uso della denominazione sociale e dei marchi contestati, in quanto tali segni sarebbero stati espressione del patronimico “Morellato” proprio dei suoi stessi titolari; dall’altro, dell’uso del proprio domain name, dal momento che quest’ultimo sarebbe stato sufficientemente diverso da quello della ricorrente per via della parola aggiuntiva “beauty”. In sede di decisione, il Giudice non ha ritenuto meritevole di accoglimento nessuna delle argomentazioni avanzate dalla resistente, escludendo l’intervenuta convalidazione dei marchi da essa rivendicata, dal momento che la documentazione prodotta era risultata inadeguata in quanto idonea a provare l’uso del marchio  per i cinque anni consecutivi. Ancora, in relazione al tema del patronimico, il Giudice ha stabilito che, se è vero che l’uso di quest’ultimo possa costituire limitazione del diritto di marchio altrui, è altrettanto vero che tale scriminante è invocabile solo quando tale uso sia conforme ai principi della correttezza professionale. Nel caso di specie, tuttavia, “è innegabile che il segno Morellato sia utilizzato dalla convenuta sic et simpliciter in funzione puramente distintiva e non per indicare il nome e cognome dei soci della convenuta, finendo per focalizzare per intero l’attenzione sul segno Morellato peraltro del tutto identico ai marchi coinvolti.  Continua ancora il Giudice che “Un tale uso non è conforme ai principi della correttezza professionale poiché idoneo a dare l’impressione che esista un legame commerciale tra il terzo e il titolare del marchio”.

In tal senso l’uso del patronimico non può dirsi lecito – né, di conseguenza opponibile, al marchio azionato dalla resistente – essendo “idoneo a dare l’impressione che esista un legame commerciale tra il terzo ed il titolare del marchio” della ricorrente. Dopo aver escluso le possibili limitazioni alla tutela del marchio azionato, il Giudice è passato quindi all’esame della sussistenza della contraffazione tra i segni, riscontrando l’evidente identità tra gli stessi, a fronte di una certa differenza tra i prodotti contraddisti. Non ha, tuttavia, ritenuto che tale differenza escluda il rischio di confusione tra i segni dal momento che i prodotti in questione possono “ricondursi al comune settore della moda e del lusso” e ritenersi dunque affini. Stabilito ciò, ha quindi riconosciuto – per quanto in via sommaria – la contraffazione del marchio azionato ad opera dei marchi della resistente, anche in applicazione del noto principio comunitario secondo cui un “tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa”. Peraltro, il Giudice ha ritenuto adeguatamente provata anche la rinomanza del marchio dalla ricorrente, tale da rendere quest’ultimo azionabile contro qualunque altro marchio simile adottato per prodotti anche non affini.

Alla luce di tutto quanto sopra, il Tribunale adito ha inibito alla resistente l’utilizzo in qualsiasi forma e modalità del marchio Morellato di titolarità della ricorrente e dunque anche sotto forma di denominazione sociale o domain name, stante l’unitarietà della tutela spettante a tutti i segni distintivi dell’impresa sancita dall’art. 22 CPI

In conclusione, il marchio patronimico è generalmente reputato un marchio forte in considerazione dell’assenza di aderenza concettuale con i prodotti o servizi che contraddistingue e, come tale, trova protezione contro somiglianze anche minime che possano ingenerare confusione nel consumatore, pertanto sorge il problema di tutelare lo stesso da operazioni parassitarie di cui è bersaglio.

 

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